Oreficerie e tesoretti
È nel filone del collezionismo ottocentesco che si colloca la raccolta perugina di oreficerie, pertinente in gran parte alla collezione di Mariano Guardabassi (1832-1880).
I gioielli sono privi, tranne pochi casi, di dati di provenienza e abbracciano un arco cronologico compreso tra la fine del VII sec. a.C. e l’età tardo imperiale.
La collezione è stata poi arricchita da una collana ed orecchini di età imperiale provenienti da una tomba di Carsulae, da un pendente figurato da Gualdo Tadino e da una croce in lamina da Spoleto del VII sec. d.C.
A corredo dell’esposizione di monete delle collezioni del Museo vengono qui presentati due tesoretti monetali da Bevagna e Gualdo Tadino, riferibili rispettivamente all’età repubblicana e all’età imperiale.
Oreficerie etrusche
L’utilizzazione dell’oro, con il suo valore cerimoniale ed economico, è testimone delle grandi trasformazioni di carattere socio-economico che interessano l’Etruria dal IX al I sec. a.C. La lavorazione di metalli preziosi per ornamento personale è attestata infatti già dal IX sec. a.C.
Dalla seconda metà dell’VIII fino alla fine del VII sec. a.C. è forte la richiesta di ornamenti preziosi da parte dei principes dell’Etruria meridionale e del Lazio, che si fanno seppellire, a dimostrazione del proprio stato sociale, con gioielli fastosi e ricca suppellettile, spesso di importazione, destinata non all’uso quotidiano, ma cerimoniale. Le tombe principesche di Cerveteri, Palestrina e, in Etruria settentrionale, di Vetulonia e Marsiliana d’Albegna testimoniano l’alto livello raggiunto dagli artigiani etruschi nella lavorazione dell’oro, in particolare per la decorazione a granulazione, pulviscolo e filigrana di fibule, bracciali, affibbiagli, spirali per capelli.
Dalla fine del VII e nella prima metà del VI sec. a.C. sono i tumuli sepolcrali dell’Etruria settentrionale (Populonia e Vetulonia) a restituire una maggiore concentrazione di oreficerie, mentre nell’Etruria meridionale si assiste ad una diminuzione di oggetti preziosi all’interno delle tombe.
Nella seconda metà del secolo, invece, la presenza di oreficerie in contesti funerari è in aumento. I gioielli guardano al mondo greco-orientale: orecchini a disco, anelli a “cartouche”, spilloni, mentre la produzione tipicamente etrusca è rappresentata dagli orecchini a bauletto, finemente decorati con piccole figure animali (leoni, sfingi, pantere) rosette a quattro petali e ornati floreali realizzati con svariati tipi di filigrana,
È ipotizzabile che il principale centro di produzione di questo tipo di oreficerie, legato per elementi decorativi alle coeve fibule con staffa allungata, sia da riconoscere nella città di Vulci.
La diffusione e la produzione seriale di queste tipologie di gioielli appartiene ora a ceti aristocratici cittadini, mostrando così un forte cambiamento sociale.
La battaglia di Cuma del 474 a.C., che vede gli Etruschi sconfitti dai Siracusani, produce una forte riduzione nell’utilizzazione dell’oro e una contrazione di ricchezza nei corredi funebri. Sono ora città come Spina ed Aleria (Corsica) a restituire materiale prezioso.
Intorno alla metà del IV sec. a.C. la ripresa economica dell’Etruria è ben rappresentata dall’uso di orecchini a grappolo, bulle decorate a stampo con scene di origine mitologica e corone di foglie d’oro; sempre nel corso del IV e in parte del III sec. a.C. assistiamo ad una notevole produzione di orecchini di foggia certamente più semplice, a tubo liscio o decorato a sbalzo con globetto biconico all’estremità, che interessa principalmente l’Etruria settentrionale ed interna.
In età più tarda i modelli di riferimento sono le oreficerie magno-greche ed in particolare gli orecchini con anforette, volatili e a testa di moro, dove ritornano, anche se in modo meno raffinato, le tecniche della granulazione e della filigrana che avevano raggiunto in età orientalizzante la loro espressione più alta.
Oreficerie romane
L’uso di materiali preziosi era regolato, nella Roma repubblicana, da norme che limitavano il lusso (leggi suntuarie). In particolare la lex Oppia del 215 a.C. obbligava le donne a “non possedere più di mezza oncia d’oro, a non indossare abiti multicolori, a non uscire in carrozza per la città se non per le feste religiose”.
Per tutta la Repubblica l’uso di gioielli a Roma rimase molto limitato ed ancora legato a modelli di tradizione ellenistica, introdotti dal mondo magno-greco ed etrusco.
Gli uomini potevano indossare solo anelli e i giovani portare al collo bulle d’oro, fino al raggiungimento dell’età virile. L’uso della bulla continua poi nella prima età imperiale, indossata però come amuleto o come piccolo pendaglio di carattere decorativo.
Nel I sec. d.C. invece, si assiste ad una vera e propria affermazione dei più svariati tipi di gioielli: anelli, bracciali, catene, reticelle per ornare le acconciature. Il pregio di tali monili non è dovuto soltanto alla lavorazione dell’oro, ma all’impiego di pietre preziose e perle, importate dalle province dell’Impero.
Grazie ai rinvenimenti in area vesuviana, Pompei e più di recente Ercolano ed Oplontis, è possibile conoscere la completa tipologia dei gioielli in uso nel I sec. d.C.: bracciali a forma di serpente o a semisfere; anelli con pietra incisa o liscia, che venivano di regola indossati nella mano sinistra; orecchini a più pendenti nei quali era infilata una perla, chiamati da Plinio crotalia, ed anche a filo liscio o a spicchi di sfera; collane di tipo semplice o lunghe avvolte attorno ai fianchi, di tradizione italica.
Va comunque sottolineato che le oreficerie della regione vesuviana testimoniano un contesto sociale ben definito sotto il profilo geografico e cronologico, sostanzialmente omogeneo, dove la modesta qualità dei gioielli contrasta però con la preziosità delle argenterie e dei servizi da banchetto rinvenuti, come il cosiddetto tesoro di Boscoreale, composto tra l’altro da 101 pezzi da tavola in argento, prodotti dai più raffinati artigiani del mondo romano.
Gli aurifices pompeiani si limitavano infatti a realizzare modelli importati da Alessandria, il più importante centro per l’arte orafa nell’età dei Tolomei, e poi dall’Egitto romano, senza apportare alcuna innovazione.
Nel II sec. d.C. la moda non subisce particolari mutamenti di gusto. Una peculiarità di questo periodo è l’uso della moneta come gioiello, che avrà grande fortuna nel secolo successivo e l’ampia diffusione di gemme e pietre dure.
Sono frequenti le collane con pietre preziose incastonate e gli orecchini di fattura più elaborata, restituiti da corredi funerari e da tesori rinvenuti in ambienti provinciali, come il cosiddetto tesoro di Lione.
In epoca successiva le oreficerie avranno effetti sempre più coloristici, grazie all’impiego di gemme di grandi dimensioni e all’uso di una nuova tecnica, l’opus interrasile, che permette di intagliare l’oro realizzando motivi a giorno, prima geometrici e poi sempre più complessi con disegni vegetali ed animali, che rendono la superficie metallica simile ad un merletto.
Tesoretti
Con il termine “ripostiglio” si è soliti indicare un accumulo di denaro, motivato dall’emergenza, in presenza di forti tensioni sociali, guerre, epidemie o quanto altro poteva costituire una minaccia per le persone e i loro beni.
Si nascondeva pertanto il gruzzolo in posti ritenuti sicuri, nell’intenzione di recuperarlo quando fossero cessate le condizioni emergenziali. Le scoperte archeologiche hanno di fatto confermato l’efficacia di tali nascondigli ma al contempo rivelato la palese impossibilità da parte dei proprietari di rientrare in possesso dei loro averi.
Bevagna
Tra il 1980 e il 1982 a Bevagna, fuori dal centro abitato, ma in un’area da collegarsi con l’insediamento urbano antico, scavi condotti dalla Soprintendenza Archeologica per l’Umbria hanno messo in luce due grandi vasche ed ambienti di collegamento, probabilmente parte di un complesso monumentale di carattere sacro. Riferibile cronologicamente alla fine del III-II sec. a.C. nella prima fase, viene poi ampliato ed abbellito in età adrianea.
Al limite del lato meridionale del ninfeo di età repubblicana è stato rinvenuto il ripostiglio di 234 monete d’argento conservate all’interno di un’olletta acroma probabilmente contenuta, a sua volta, in una cassetta lignea. Il ripostiglio si compone quasi esclusivamente di denari dalla prima serie anonima, alle emissioni dei primi anni del I sec. a.C.
Bevagna ha restituito inoltre, nel 1929, un altro ripostiglio di 911 denari d’argento rinvenuto a poche centinaia di metri dal complesso monumentale; è probabile che entrambi i tesoretti siano probabilmente da collegare agli avvenimenti che interessarono l’Umbria in occasione della guerra sociale.
Gualdo Tadino
Nel 1951 a Grello, una frazione di Gualdo Tadino, furono rinvenute 99 monete d’argento “entro un vasetto di terracotta”. Si ignorano purtroppo le modalità e le circostanze del rinvenimento curato allora dalla Soprintendenza Archeologica di Ancona presso cui venne poi trasferito il tesoretto. I denari d’argento sono battuti dalla zecca di Roma; i limiti cronologici sono segnati da un’emissione di Otone, datata quindi alla prima metà del 69 d.C. e da una di Commodo, la cui titolatura rimanda al periodo dicembre 183-dicembre 184.
Sono presenti 1 emissione di Otone, 1 di Vitellio, 1 di Tito, 3 di Domiziano, 12 di Traiano, 14 di Adriano, 29 di Antonino Pio, 35 di Marco Aurelio e 3 di Commodo.
Ultimo aggiornamento
24 Novembre 2020, 15:08